D. - “Le istituzioni europee sono nuove, sono distanti e sono complicate”. Questa è la sensazione, invero diffusa in buona parte della società italiana e, in qualche modo, alimentata dall'esistenza di una complessa e imponente macchina burocratica europea.
Del resto, uno degli assunti dal quale muove il suo lavoro è che coloro che fanno parte di una burocrazia, qualunque essa sia, sono, diciamo in via principale ma non esclusiva, interessati al mantenimento delle posizioni acquisite, dello status quo.
Se questa è la realtà, quali spazi realisticamente ci sono per processi di autoriforma della macchina europea?
R. - Il mio giudizio sulla burocrazia europea, per esserci passato, è abbastanza positivo, specie in rapporto a quelle nazionali e in particolar modo alla italiana. Gli sprechi e le inefficienze che hanno riempito le cronache di qualche anno fa sono dovute, a mio parere, a una distorsione della missione principale degli eurocrati. Che non è, ripeto non è, quella di distribuire soldi a vario titolo ad ogni angolo d'Europa e del mondo, ma quella di fare buone leggi per regolamentare l'attività economica europea - il cosiddetto mercato interno - e di interpretare queste regole con rigore e saggezza - la concorrenza. E questo gli eurocrati lo sanno fare bene. Nel mio libro ho sostenuto che la funzione redistributiva (attraverso la politica agricola, i fondi strutturali e le politiche interne) non è quella propria dell'Unione. L'Unione deve occuparsi innanzitutto della regolamentazione del grande mercato interno europeo, della politica monetaria e, in una prospettiva che spero la più breve possibile, di politica estera e di difesa, e di parte delle politiche economiche e fiscali. Il resto è meglio che resti agli Stati nazionali e alle burocrazie nazionali.
D. - Maggioranza, maggioranza qualificata, unanimità, diritto di veto. Le regole alla base degli attuali meccanismi decisionali degli organismi europei sono oggetto di un ampio dibattito. In particolare, emerge la difficoltà di contemperare le istanze di natura politica, che farebbero propendere per un prevalente ricorso alla regola dell'unanimità, con quelle dettate da esigenze di semplificazione e miglioramento del funzionamento delle strutture europee che indurrebbero, invece, ad un maggiore ricorso all'adozione di decisioni a maggioranza. Sulla base della sua esperienza a Bruxelles, quali possibili soluzioni intravede a queste due diverse tendenze, anche in considerazione di un futuro allargamento dell'Unione?
R. - Un'unione di 25 Stati - come sarà l'UE tra qualche anno - non può funzionare sulla base dell'unanimità. Alla creazione del mercato interno ci si è arrivati solo grazie al ricorso alla maggioranza qualificata. Ricollegandomi alla mia precedente risposta, sono convinto che occorra guardare al problema con occhi nuovi e decidersi a togliere molte materie dalla sfera delle competenze comunitarie, risolvendo così alla radice il problema unanimità o maggioranza per quelle materie. Viceversa, il processo decisionale sottostante alle funzioni di governo che si decide di attribuire all'Unione deve basarsi sulla maggioranza - qualificata come si vuole, ma pur sempre maggioranza.
D. - Eventi internazionali più e meno recenti hanno evidenziato, in diverse occasioni, la necessità, ai fini del mantenimento della pace e degli equilibri internazionali, che l'Unione europea si muova, nelle sue relazioni esterne, come un unico soggetto dotato di autonoma capacità politica e militare. Con tutti i limiti, anche di natura politica interna, che l'Unione si trova a dover gestire, quali prospettive ritiene ci siano perché questo obiettivo si realizzi?
R. - Rispondo a questa domanda il 5 aprile del 2002, il giorno dopo il rifiuto del governo israeliano di riconoscere all'Unione europea un qualsivoglia ruolo di mediazione nel conflitto con l'Autorità palestinese. Nella situazione attuale il peso dell'UE negli affari mondiali non è maggiore di quello delle sue parti, gli Stati nazionali, compresi quelli più importanti come la Francia e la Gran Bretagna - membri permanenti del consiglio di sicurezza dell'ONU. C'è una battuta (amara) d'origine anglosassone che riassume bene questa situazione: l'Unione è un gigante economico, un nano diplomatico e un verme militare. Spero solo che la doccia fredda mediorientale serva a persuadere un po' più di europei che l'alternativa al trasferimento all'Unione delle funzioni di governo diplomatica e militare è l'irrilevanza globale.
D. - Leggendo il suo libro, ad un certo punto coglie la convinzione che i paesi caratterizzati da un forte senso di identità nazionale e da una solida e storica tradizione democratica siano tendenzialmente meno filoeuropei di altre democrazie “più giovani”, nelle quali si manifesta minore coesione nel rapporto di fiducia tra i cittadini e le istituzioni nazionali. Esiste, dunque, a suo avviso, un rapporto tra la carenza di cultura istituzionale a livello nazionale e la maggiore predisposizione di uno Stato a delegare ad altre istituzioni, a carattere sovranazionale, talune proprie competenze. Ritiene, viceversa, che la partecipazione all'Unione europea, possa avere per il nostro Paese un effetto positivo sotto il profilo dello sviluppo della cultura istituzionale a livello nazionale?
R. - Che la nostra partecipazione alle istituzioni comunitarie potesse aiutare lo sviluppo di una cultura istituzionale in Italia era la speranza di molti. Io ne vedo scarse tracce. C'è pochissima osmosi tra i funzionari pubblici italiani e quelli comunitari: la mia esperienza diretta è che rimangono due mondi largamente separati. Vale purtroppo la regola inversa: non riuscendo noi, da soli, a sviluppare una prassi e una cultura istituzionali di adeguato livello, contiamo poco in Europa e ancor meno nel processo di innovazione, di aggiornamento e di messa a punto delle istituzioni comunitarie. Su questo specifico problema sono molto pessimista e nel libro non l'ho davvero nascosto. Ho infatti sostenuto che per noi italiani il vantaggio di trasferire all'Unione alcune funzioni di governo è proprio quello di metterci per definizione in minoranza nel processo decisionale, di farci governare da gente più abile di noi nell'amministrazione della cosa pubblica. So che è una tesi irritante, ma a chi non la condivide chiedo: avremmo mai cominciato a mettere ordine nelle nostre politiche monetarie e fiscali se non avessimo deciso di trasferire queste competenze (interamente la prima, parzialmente la seconda) all'Unione europea?
D. - Una parte del suo libro è dedicata al futuro allargamento dell'Unione europea. Quali sono, a suo avviso, le principali problematiche derivanti dal prossimo ingresso nello spazio europeo di nuovi Stati membri?
R. - A una di queste problematiche abbiamo già accennato: è il processo decisionale. Che rischia di rimanere bloccato con 25 Stati che possono mettere il veto su questo e su quello. Trovare una soluzione a tutto ciò è uno dei compiti principali della Convenzione europea presieduta da Valéry Giscard d'Estaing. Le altre sono di natura economica: gli squilibri di reddito tra noi e i nuovi membri sono fortissimi e sarà difficile colmarli in tempi brevi. Applicare i sussidi comunitari all'agricoltura - che, lo ricordo, assorbono metà dell'intero bilancio comunitario - ai nuovi membri significa far esplodere questa spesa sciagurata e allo stesso tempo stravolgere economie, come quella polacca o quella romena, dove gli agricoltori sono ancora tra un quarto e un terzo della popolazione attiva. Infine, dal mio punto di vista di convinto federalista, c'è il timore che questi Stati che hanno da poco ritrovato una genuina identità nazionale siano molto restii a cedere prerogative e funzioni di governo all'Unione. Detto più crudamente: temo che i ranghi degli euroscettici siano destinati a crescere con l'allargamento. Ma allargare si dovrà comunque. È meglio sperare, quindi, che questo processo rappresenti l'innesco per ripensare al meglio politiche, procedure e funzioni di governo dell'Unione.
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